CREARE OPPORTUNITÀ GUIDARE IL CAMBIAMENTO

Stato dell’arte e prospettive di riforma, fra eccellenze e tensioni.
Secondo dati ISTAT il numero delle persone con disabilità, in Italia è di 3.150,000 pari al 5.2% della popolazione, un dato lontano da quello indicato dalle statistiche internazionali.

Considerando infatti che solo i beneficiari di provvidenze economiche sono 4.5 milioni di persone si può stimare, sulla base delle indicazioni internazionali, il numero reale molto più vicino ai nove milioni di persone.

L’OMS infatti stima il numero delle persone con disabilità nel 15% della popolazione mondiale (più di un miliardo di persone) e la UE nel 16% dei cittadini europei (90 milioni circa).

Ciò a fronte di una condizione personale come la disabilità che richiede un approccio globale teso a riconoscerne le implicazioni e la rilevanza nel quadro di ogni politica sia specifica che di ordine generale, affinchè le esigenze delle persone con disabilità siano sempre e debitamente considerate (cit. DDL 3347-2021).

Negli ultimi anni ci si sta sempre più rendendo conto che la diversità sui luoghi di lavoro è importante, non possono dunque fare eccezione al succitato principio, le politiche del lavoro.

I temi centrali in materia di occupazione e disabilità sono ancora:

-le sfide che affrontano i lavoratori ed i disoccupati con disabilità, che devono essere correttamente intercettati ed identificati;

-fornire esempi di programmi e politiche in grado di implementare l’inclusività sui luoghi di lavoro;

-metodi e strumenti per fornire assistenza ai lavoratori, ai datori di lavoro ed agli altri soggetti coinvolti e per garantire l’adeguato monitoraggio di tutte le fasi.

Si vuole dare una lettura della normativa inerente all’inserimento al lavoro delle persone con disabilità come interpretata dai Giudici chiamati a esprimersi in termini di merito, di legittimità (Tribunali e Cassazione) e di costituzionalità.

Il sistema in essere è di certo complesso e perfettibile, ma allo stesso tempo d’avanguardia ai fini dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, stiamo parlando di una legge che ha più di venti anni.

Si assume come riferimento la definizione di ‘disabilità’ elaborata dalla CGUE, (Daaouidi 2016) ossia l’insieme di ‘limitazioni che risultano da lesioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacolano la partecipazione della persona alla vita professionale’, ha inoltre avuto cura di precisare che tale stato limitante deve essere di ‘lunga durata’.

Molti si soffermano sulla giurisprudenza costituzionale che ha dichiarato il dovere di solidarietà sociale in capo alle imprese e la funzione sociale che il sistema economico è chiamato a svolgere per tale fascia della popolazione.

Di seguito si dà conto del sistema ‘quota’ all’interno del più ampio sistema di ‘collocamento mirato’, come rivisto dalla Riforma del mercato del lavoro del 2015, attraverso la richiesta nominativa generalizzata e la revisione delle politiche attive del lavoro.

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Si sono però evidenziati due tasselli mancanti: le linee guida e la banca dati sul collocamento mirato, fondamentali per monitorare gli effetti delle novità introdotte rispetto alle quali occorre tempo, la non attività/aggiornamento della banca dati non permette di usufruire statisticamente dei dati.

Al momento se può dirsi che già con l’istituto della convenzione si ottempera all’obbligo di assunzione mediante un canale ‘nominativo’ e ‘contrattualizzato’; l’ampiezza del disegno riformatore perseguito con i provvedimenti del Jobs Act, ha necessitato di un certo lasso di tempo per essere correttamente valutato nei suoi effetti sul mercato del lavoro e dati importanti potranno aversi da ulteriori aggiornamenti.

Tuttavia, anche attualmente i dati statistici sulla presenza dei disabili nel mercato del lavoro sono assai deludenti nel nostro paese, infatti l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità (dicembre 2019)1, su 100 persone di 15-64 anni che, pur avendo limitazioni nelle funzioni motorie e/o sensoriali essenziali nella vita quotidiana oppure disturbi intellettivi o del comportamento, sono comunque abili al lavoro, solo 35,8 sono occupati.

Di contro, per la stessa fascia d’età il tasso di occupazione delle persone senza disabilità è pari al 57,8%. Una differenza, quindi, di 22 punti percentuali.

Nei paesi UE tale percentuale media era (già 10 anni fa) pari al 50% eppure tale dato complessivo era considerato dagli organi dell’Unione assai deludente: a quell’anno risale il lancio della “Strategia sulla disabilità (2010-2020).

Ma non è tanto (e solo) il dato generale dell’Italia che dovrebbe far preoccupare le autorità competenti, quanto le forti discriminazioni (di sesso, generazionali, per tipologia e grado di disabilità e geografiche) che questo dato generico nasconde.

A nostro avviso permangono criticità che neppure la riforma del 2015 ha provveduto a sanare completamente, dunque non si può dire che la riforma sia un successo, almeno non completo e non su questo specifico punto.

Mi riferisco in particolare all’ampiezza delle deroghe previste già nel testo normativo, tali da disinnescare l’efficacia di un testo normativo altrimenti – come già detto – all’avanguardia, ed alla sostanziale inefficacia delle sanzioni che in alcuni casi non sono neppure un deterrente.

Moltissime sono le scoperture, ossia i posti di lavoro che dovrebbero essere occupati da lavoratori disabili e non lo sono, senza considerare che il tasso di inserimento lavorativo delle persone con disabilità psichica è assolutamente insignificante da un punto di vista statistico[1].

La legge in questi casi prevede che le aziende che hanno tra i 15 e i 35 dipendenti dovrebbero impiegare almeno un lavoratore disabile. Per le imprese fra i 36 e i 50 dipendenti si parla di 2 lavoratori disabili. Infine, sopra i 50 dipendenti, il numero dei lavoratori disabili deve rappresentare almeno il 7% del totale.

Tuttavia, molte aziende preferiscono pagare le sanzioni (160 euro per ogni giorno di non ottemperanza) piuttosto di assumere un lavoratore disabile, forti anche delle carenze del sistema di monitoraggio e controllo.

Si ritiene peraltro che il mercato del lavoro come delineato dalla legge italiana non sia – nonostante le modifiche introdotte – quel mercato libero cui fa esplicito riferimento l’art. 27 della Convenzione.

Non si ha infatti notizia di assunzioni per merito di persone con disabilità

L’abitudine ad agire a legge vigente porta a considerare gli accomodamenti ragionevoli come il punto cardine che possa consentire di superare le criticità delineate e dell’attività del DM tanto nei confronti delle aziende che dei lavoratori.

Essi si definiscono nella traduzione italiana come soluzioni ragionevoli in funzione delle esigenze e delle soluzioni concrete tali da consentire l’accesso e la conservazione del rapporto di lavoro.

E’ pertanto impossibile predeterminare il contenuto dell’obbligo che è volutamente lasciato aperto dal legislatore e la giurisprudenza lo definisce più che altro in termini negativi ed in termini di proporzionalità, soppesando gli interessi giuridicamente rilevanti coinvolti.

Da un lato l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà e quella del datore a garantirsi comunque una prestazione utile all’impresa e dei terzi coinvolti (Cass. SL 9.3.2021 n.6497).

Proprio il carattere aperto della definizione di accomodamento o soluzione ragionevole si ritiene consenta alla professionalità del DM un intervento nei vari momenti genetici del rapporto di lavoro.

Benché molti pensino in termini di inclusione a razza e genere, le persone con disabilità sono una parte assolutamente rilevante quando si parla di diversità ed inclusione sui luoghi di lavoro.

Ciò che si vuole è incontrare la giusta opportunità, nella consapevolezza che trovare un lavoro è solo la prima sfida, la seconda è conservarselo.

Si sta progressivamente comprendendo che adottare una definizione ampia di diversità non solo è giusto da fare ma comporta benefici tangibili e reali che derivano direttamente o indirettamente dal lavorare con o dall’assumere persone con disabilità, vuoi che sia una produttività aumentata, maggiore stabilità lavorativo o la possibilità ed abilità di accesso a talenti e potenzialità nascoste.

Le compagnie che interagiscono attivamente con persone con disabilità hanno percentuali di vendita maggiori di circa il 3% rispetto a chi non lo fa (dati USA).

Il problema è dove trovare chi cerca disabili da assumere?

Al di la delle assunzioni nella PA è consigliabile cercare il lavoro più adatto ad ogni singola persona, con le proprie caratteristiche, ma esiste davvero un tale livello di personalizzazione?

Si tratta di un elemento che può aiutare a risolvere una questione spinosa e poco conosciuta in cui si trovano molte persone con disabilità al momento del primo colloquio in persona.

L’obiettivo rimane quello di rimuovere il problema dell’incontro tra domanda e offerta, in quanto molte ricerche aperte sul tema dimostrano che personale qualificato con disabilità rappresenta un valore aggiunto al di la degli accomodamenti ragionevoli che possano essere necessari.

Le persone dovrebbero sentirsi incoraggiate ad elencare gli accomodamenti che ritengono necessari, per trovarsi in una posizione migliore già in fase di colloquio preassuntivo perché un colloquio che non ha alcuna opportunità di successo già prima di iniziare è inutile, stressante ed è una sconfitta per l’intero sistema.

[1] Le disabilità psichiche rappresentano una grande incognita per i datori di lavoro, prova ne siano i dati occupazionali infinitesimali, spesso risultano inseriti in ambienti di lavoro protetti (non aperti) anche in base alle indicazioni rinvenibili sui verbali di invalidità (occupabile lontano da macchinari o similari).

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Avv. Silvia Assennato – Assennato&Associati